"A tarda notte nessuno sa ancora rendersi conto di come sia successa la più spaventosa disgrazia che qui memoria d’uomo ricordi.
Eppure molti hanno assistito.
Ecco un agricoltore che abita in una casetta di fronte al cantiere: «Stavo guardando il cielo perché era cominciata a cadere la pioggia e guardavo davanti a me i tre grandi capannoni che l’impresa di Torino ha quasi finito di costruire per la fabbrica di aratri. Un rombo, un capannone di 64 metri per 14 si affloscia al suolo; un secondo, forse due, e una nuvola di polvere che sale per metri e metri e che copre tutto; ed io e gli altri inchiodati che non riusciamo a muoverci».
Solo quando lui ed altri si muovono e si avvicinano si ha la sensazione esatta della catastrofe.
Ai margini dei nuvoloni di fumo, accanto ai primi rottami di mattoni, dei corpi. Uno, due, tre: svenuti, sanguinanti, vivi.
Ma gli altri?
Dove sono i quindici, venti che dovevano essere lì sul tetto a mettere le ultime tegole o dentro il capannone a preparare il materiale?
La gente accorre: i compagni di lavoro dalle altre parti del cantiere, i contadini dai dintorni, tutti gli uomini validi di Moncalvo. Tanta gente, sì; ma davanti ad essa una montagna di detriti, di fili d’acciaio contorti, di briciole rosse di tegole.
Dove saranno, dove saranno?" (La Stampa - 10 luglio 1953)